Le cifre restano comunque impressionanti, ma fotografano una realtà diversa da quella teorizzata. Secondo uno studio interno della Riaa, l'associazione dei discografici americani, il 65% della musica acquistata negli Stati Uniti proviene da vendite illegali. Il mercato lecito è il 35%, quello composto da acquirenti che comprano i Cd ed effettuano download legali dalle varie piattaforme.
Ma all'interno del 65% del mercato "nero", solo il 15% del materiale sarebbe quello che viaggia sui circuiti del file sharing - e per di più neanche a pagamento, lo scambio sul P2P è libero. Il report per la Riaa è stato realizzato da NPD, per illustrare in numeri l'appoggio alla proposta di legge di protezione del mercato musicale. Non dissimile da quanto già in vigore in Francia, solo con più possibilità di errore da parte dell'utente, che può essere "beccato" sei volte anziché tre, in possesso di file multimediali di provenienza illecita.
In questo modo però la Riaa ha in mano un'arma non particolarmente affilata, almeno per quanto riguarda l'online. Perché secondo lo studio, il grosso dell'illegale lo fa il traffico di Cd contraffatti e le chiavette Usb, o i vari servizi di archiviazione gratuita e a pagamento. Insomma il P2P incide poco, e a vincere, con il 50% del totale, è ancora l'acquisto pirata in strada, a prezzi inferiori al negozio, e lo scambio "brevi manu" di penne Usb, Cd copiati o "rippati" dall'utente e poi restituiti, e hard disk portatili.
Lo scenario della pirateria musicale in Usa è quindi quello che ci si aspetterebbe di trovare in un report di fine anni 90. Il file sharing c'è, esiste, ma non incide come le vecchie abitudini di chi si scambia la musica: se gli anni 70 e 80 erano il regno della "doppia piastra" e delle registrazioni da vinile a nastri al cromo, i 2000 continuano in quella tradizione. E quindi ogni proposta di legge restrittiva sull'online, ammesso che porti a una normativa che funzioni, lascia fuori a priori il nocciolo del problema.
Fonte: www.repubblica.it